Le nuove frontiere delle celle bio-fotovoltaiche

Con il termine bio-fotovoltaico si indica generalmente un sistema fotovoltaico in cui, a partire da un insieme di sostanze di natura organica, si produce energia elettrica grazie a un meccanismo di fotosintesi.

Per quanto teoricamente realizzabili, ad oggi i sistemi bio-fotovoltaici non hanno ancora superato la fase di laboratorio, in quanto presentano numerose difficoltà costruttive, scarsa ripetibilità dei procedimenti realizzativi e un rendimento non del tutto soddisfacente. Recentemente, un gruppo di ricercatori provenienti dal MIT (Massachusetts Institute of Technology), dall’Università del Tennessee e dalla Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne, ha teorizzato la possibilità di ricavare una quantità di energia elettrica non trascurabile a partire dalla membrana di un complesso proteico denominato Fotosistema-I (in inglese Photosystem-I o PS-I). La strategia elaborata in questo studio prospetta una conversione di energia dello 0,1%, ancora troppo piccola per qualsiasi applicazione pratica, ma comunque 10.000 superiore rispetto a quelle indicata nelle precedenti pubblicazioni scientifiche.

 

L’articolo è stato pubblicato dal ricercatore Andreas Mershin e dai suoi collaboratori sulla rivista Science Reports, e parte dai presupposti di un lavoro del 2004 pubblicato da un altro ricercatore del MIT, Shuguang Zhang. In entrambi gli studi, il sistema PS-I permette di trasformare l’energia luminosa in un flusso di elettroni, ovvero in una corrente elettrica.

Tuttavia, mentre il primo studio prevedeva di derivare il sistema PS-I dalle piante per poi deporlo su un substrato di vetro, il team di Mershin ha messo a punto un procedimento più semplice e facilmente ripetibile per realizzare una cella bio-fotovoltaica. In particolare, con il nuovo sistema si isola il PS-I prodotto da cianobatteri termofili (Thermosynechococcus Elongatus) e lo si mette ad asciugare all’aria su substrati semiconduttori nanostrutturati. Successivamente i circuiti vengono completati da un elettrolita liquido e racchiusi da un vetro platinato. Inoltre, il procedimento si discosta da quello tradizionale per la particolare geometria degli elettrodi, che richiama una soluzione sviluppata dalla natura, e in particolare dai pini.

In sostanza,gli scienziati hanno osservato che alcuni tipi di pino presentano piccoli rami disposti su tutta la lunghezza del tronco, in modo da catturare la luce del sole che filtra attraverso le fronde dall’alto verso il basso. Per simulare questa particolare struttura, Mershin e i collaboratori hanno utilizzato nanocristalli di biossido di titanio oppure nanofili di ossido di zinco, in modo da creare elettrodi semiconduttori con un’elevata superficie mesoscopica, ovvero di scala intermedia tra macroscopica e microscopica. Questo accorgimento ha permesso di totalizzare una maggiore area di superficie efficace per l’adsorbimento e la conversione della luce, a parità di materiale impiegato.

In natura, il PS-I catalizza la luce grazie a un trasferimento di elettroni dalla plastocianina ridotta, una proteina contenente rame, alle ferredossine, altre proteine contenenti ferro e zolfo. Nella configurazione della cella bio-fotovoltaica del MIT la plastocianina è stata sostituita da un elettrolita al Cobalto, e il ruolo del ferredossina è stato simulato sia dai nanocristalli di biossido di titanio che dai nanofili di ossido di zinco.

 

Gli autori ritengono che si possano raggiungere ulteriori significativi guadagni in termini di efficienza con un opportuno processo di ottimizzazione. Inoltre, essi sperano che i principi di progettazione e la metodologia sviluppata siano in grado di stimolare altri studiosi ad estendere le loro attività di ricerca al settore del bio-fotovoltaico, in modo da incrementarne le possibilità di sviluppo.

 

Spazio in collaborazione con Crit-Research

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