di Edo Ronchi
La 26esima Conferenza delle Parti (COP 26) delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico non si farà in Italia ma nel Regno Unito, a fine 2020.
L’annuncio ufficiale di questa decisione, pubblicato sul sito del governo italiano, ha destato una certa sorpresa: essendo rimaste in lizza come candidate ormai solo Italia e Regno Unito, dopo che la Camera dei Deputati il 4 aprile scorso aveva votato una mozione, quasi all’unanimità.
Tale mozione proponeva la candidatura dell’Italia, visto che il Regno Unito ormai è fuori dall’Unione Europea e sembrava che l’Italia fosse favorita, visto che la Presidenza a questo giro spetta a un Paese europeo.
Si tratta certamente di una rinuncia: il governo italiano si è, infatti, accordato con quello britannico perché la COP 26 si faccia a Londra e sia presieduta dal Regno Unito, anticipando la decisione formale che sarà presa in sede ONU entro la fine dell’anno.
Visto che una riunione preparatoria o un convegno tematico, indicati nel comunicato sull’accordo con il Regno Unito, non sono comparabili con una COP, resta da capire il perché di questa rinuncia.
Vista la rilevanza della decisione e dato che c’è stato un voto del Parlamento, è opportuno che il governo spieghi le ragioni che lo hanno portato a questa rinuncia. Forse sarà chiamato a farlo in Parlamento. Vedremo.
La COP 26 sarà una scadenza importante per la complessa diplomazia internazionale per il clima: dovrà verificare se i Paesi che hanno aderito all’Accordo di Parigi intendono aumentare le loro ambizioni nella riduzione delle emissioni dei gas serra, visto che gli impegni presi fino a ora sono globalmente insufficienti a stabilizzare l’aumento delle temperature sotto i 2°C.
Il punto debole dell’Accordo di Parigi sono i suoi tempi troppo lunghi, a fronte dell’accelerazione della crisi climatica e dell’aumento delle emissioni globali degli ultimi due anni.
Gli esiti della Cop 26 saranno molto importanti per preparare e consentire esiti concreti alla verifica fissata nel 2023: esiti possibili solo se si comincia a rimettere gli impegni nazionali in traiettoria con l’Accordo di Parigi, sancendo che gli impegni nazionali, conteggiati con criteri omogenei, vanno migliorati e ottenendo la disponibilità dei vari Paesi a procedere con maggiori riduzioni.
Alla COP 26 arriveranno al pettine nodi rilevanti. La Cina ha sempre difeso l’Accordo di Parigi, ma continua ad aumentare le proprie emissioni e non ha ancora assunto impegni quantificati per la loro riduzione, ma solo di miglioramento dell’intensità energetica e carbonica.
Gli Usa di Trump hanno dichiarato l’intenzione di lasciare l’Accordo di Parigi: alla fine di quest’anno lo potranno fare. Se, come pare probabile, lo faranno, la Cop 26 dovrà gestire un nuovo quadro globale e andare avanti anche con gli USA fuori dall’Accordo.
E l’Europa dopo le recenti elezioni che farà? Vorrà fare dell’impegno per il clima una sfida centrale per il proprio futuro: trarne una spinta all’innovazione ecologica e alla modernizzazione competitiva del suo sistema energetico, economico e produttivo?
L’Italia, a fronte di simili grandi questioni, avrebbe potuto svolgere, ospitando e presiedendo la COP 26, un ruolo europeo e internazionale non semplice, non privo di difficoltà, ma di grande rilievo.
Sarebbe stata anche un’occasione per alzare l’attenzione e il livello di impegno dell’Italia su una questione cruciale come la crisi climatica. Peccato che il governo vi abbia rinunciato: occasioni del genere non si presentano spesso.