Notizie tristi dalla COP 19 di Varsavia, la capitale del carbone

a cura di Toni Federico

Siamo, e siamo sempre stati coerentemente difensori del negoziato multilaterale sull’ambiente e mai abbiamo trascurato di dare conto degli incontri e dei Summit che si susseguono nel quadro delle Nazioni Unite.

Per non unirci al coro dei commentatori che, specie nel nostro paese, aspettano queste scadenze per celebrarne il sistematico fallimento, scambiando il cinismo per una virtù, abbiamo già avanzato da tempo la proposta di cambiare metodo e passare a forme di consultazione dirette per il clima tra i grandi emettitori, Cina e Stati Uniti, per esempio. Ovvero creare una sorta di Consiglio di sicurezza per il clima e l’ambiente in sede ONU o nella nuova Assemblea Generale dell’UNEP o nel G20 o dove si voglia, se si vuole, venire a capo di questa terribile “corsa verso il nulla”.

 Diverse centinaia di rappresentanti della società civile, hanno abbandonato la COP 19, convocata a Varsavia sotto la guida del premier più negazionista e meno indicato per guidare una COP climatica al successo, dichiarando una sfiducia definitiva sulla capacità della UNFCCC a produrre qualcosa di utile e denunciando il disimpegno inconcludente dei governi. A chi stava arrivando a Varsavia, la comunità scientifica aveva fatto sapere per tempo, con il Rapporto del primo Gruppo di lavoro dell’IPCC AR5, che il cambiamento climatico è inequivocabile, che i suoi effetti sono del tutto evidenti in molte parti del mondo, inondazioni nel Medio Oriente ed Europa, siccità prolungate negli Stati Uniti e Australia. L’influenza umana sul sistema climatico è chiara e limitare il cambiamento climatico richiederà una pesante e duratura riduzione delle emissioni di gas serra. IL WMO ha confermato che il 2013 è stato tra i primi dieci anni più caldi mai registrati e che la fusione delle calotte di ghiaccio e dei ghiacciai ha portato il livello globale del mare ad un nuovo livello record. L’edizione 2013 dell’UNEP Gap Report ha evidenziato un ulteriore aumento delle emissioni nel 2013 ed ha stabilito che le opportunità di cogliere l’obiettivo dei +2°C si stanno chiudendo, mettendo tutti in guardia (quante volte l’abbiamo ripetuto!) contro i costi dell’inazione. Per il negoziato sul trattato globale per il clima per il 2020, alla fine di due inutili e faticose settimane i risultati sono stati scarsi. Il compito concordato a Durban di sviluppare entro il 2015 un protocollo, un altro strumento giuridico o un risultato concordato avente forza legale nell’ambito della convenzione, applicabile a tutte le parti, che possa entrare in vigore entro il 2020, è ormai diventata la prova dentro-o-fuori, della capacità della UNFCCC a rispondere alle urgenze del cambiamento climatico. Al giro di boa del 2015 mancano solo due anni: le parti sembrano lontane dall’obiettivo di produrre un testo negoziale per la COP 20 dell’anno prossimo a Lima.

I paesi del G77/Cina sono riluttanti a riconsiderare lo schema di bipartizione di Kyoto e sostengono, invece, che qualsiasi futuro accordo dovrà conservare la distinzione tra paesi Annesso I e non Annesso I. Dal lato opposto l’abbandono della bipolarità climatica nel contratto 2015 è una esigenza chiave dei paesi sviluppati. Il loro argomento forte è che ci sono stati cambiamenti fondamentali nell’economia mondiale rispetto al 1992 (il Summit della Terra di Rio), tanto che alcuni paesi non compresi nell’Annesso I, come la Repubblica di Corea, Cina, Brasile e India, sono ora potenze economiche con emissioni GHG imponenti e in aumento. Per lungo tempo, la tesi della differenziazione era collegata al dato delle emissioni pro-capite, molto inferiori a quelli dei paesi sviluppati ed al diritto allo sviluppo dei paesi in ritardo. Oggi, la Cina è il più grande emettitore mondiale in termini assoluti, ed è alla pari con l’UE in termini pro capite. Rimane il fatto che il metodo adottato da Kyoto in avanti di basare gli impegni di riduzione sulla misura dei flussi delle emissioni GHG, nasconde il fatto che il danno climatico è generato dagli stock di GHG emessi nel tempo, circostanza che va sotto il nome di responsabilità storica dei vari paesi. Qui i conti non tornano più, considerando la prolungata attività industriale dei paesi sviluppati e la lunga e centenaria permanenza in atmosfera delle molecole di CO2.

L’altra questione causa di grave controversia sono gli impegni di mitigazione pre-2020 (pledge), che, dopo Copenhagen, avrebbero dovuto essere assunti da tutti i paesi. Solo Bangladesh, Barbados, Mauritius e gli Emirati Arabi Uniti, hanno ratificato l’emendamento di Doha, che istituisce il secondo periodo d’impegno per il Protocollo di Kyoto e che deve ottenere 144 ratifiche per entrare in forza. La Cina e l’Unione europea hanno annunciato l’intenzione di ratificare ma, anche con tutti gli Stati membri dell’UE dentro, sono necessari altre 110 ratifiche. Se l’emendamento non entra in vigore, anche i paesi che hanno quantificato una limitazione o impegni di riduzione unilaterali delle emissioni (QELRC), non sono giuridicamente tenuti a soddisfarli. Inoltre, il secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto copre solo circa il 15 % delle emissioni globali, cosa che rende indispensabile che altri paesi contribuiscano allo sforzo globale di mitigazione, se deve essere raggiunto l’obiettivo di contenere la temperatura globale entro i +2°C.

In questa luce tutte le altre questioni appaiono marginali. Tuttavia va detto che si è potuto approvare, in extremis, un pacchetto di decisioni che costituisce il quadro per il REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) stabilendo un sistema di monitoraggio, rendicontazione e verifica (MRV), un assetto istituzionale, e un programma di lavoro per i finanziamenti basati sui risultati. In mezzo ai risultati deludenti, REDD+ spicca probabilmente come un traguardo singolarmente positivo. L’accordo raggiunto sui finanziamenti istituisce un hub informativo sul REDD+, ma non riesce a dar vita a quel meccanismo di mercato fortemente voluto da coloro che nel 2005 hanno riportato la deforestazione all’ordine del giorno dell’agenda UNFCCC. Al contrario, la decisione finale segue un approccio basato sui finanziamenti, che secondo alcune stime potrebbe richiedere 30 miliardi di dollari l’anno.

La COP 19 ha raggiunto decisioni piuttosto modeste su altre questioni cruciali: i finanziamenti a lungo termine, e le perdite e i danni. Gli impegni presi a Varsavia, tra cui 40 M$ da parte della Repubblica di Corea per il Green Climate Fund (GCF) e i 72,5 M$ da parte di sette governi europei al Fondo di adattamento, non hanno potuto certo ridare la fiducia ai paesi in via di sviluppo rispetto al mantenimento dell’impegno del 2009 di versare 100 Mld$ all’anno entro il 2020. I paesi in via di sviluppo sottolineano che i finanziamenti per il clima attraverso i fondi multilaterali sono scesi del 71 % nell’ultimo anno, e che il GCF contiene 6,9 M€ donati soltanto da dieci paesi. Il GCF appare in gran parte un guscio vuoto, e molti paesi in via di sviluppo sono preoccupati riguardo alla possibilità che le promesse fatte si concretizzino in depositi reali per raggiungere l’obiettivo 2020.

Si è persa anche l’occasione dell’istituzione del meccanismo di indennizzo per le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico. L’anno scorso a Doha, si era convenuto che la COP 19 avrebbe stabilito un regime istituzionale, una sorta di un meccanismo internazionale che affrontasse le perdite e i danni in paesi che sono particolarmente vulnerabili agli effetti negativi del cambiamento climatico, e che avrebbe elaborato le funzioni e le modalità in conformità con il ruolo della Convenzione. Questo problema si è rivelato uno dei più controversi della conferenza. Alla fine, l’accordo è stato raggiunto solo durante la chiusura dei lavori, per merito del pressing del gruppo G-77/Cina che ha messo a segno un emendamento last-minute per distinguere perdite e danni dall’adattamento, anche se tale distinzione compare solo nel preambolo. Il nuovo meccanismo internazionale di Varsavia permette di migliorare la conoscenza, le azioni e i supporti per i danni e le perdite e rafforza il dialogo fra le parti interessate. Tuttavia, si tratta solo di “inviti” ai paesi sviluppati di fornire sostegni finanziari ai paesi in via di sviluppo.

Toni Federico

Fondazione per lo sviluppo sostenibile

Facebooktwitterlinkedinmail