Il fardello di culture politiche insostenibili al piede della transizione ecologica

Visto il forte aumento dei prezzi dei fossili, del gas e del petrolio, che stanno colpendo i redditi delle famiglie e la capacità di ripresa delle imprese, visto che importiamo il 40% del gas dalla Russia, contribuendo a indebolire l’efficacia delle sanzioni economiche e a finanziare la devastante guerra di occupazione dell’Ucraina, ci aspettavamo un ampio consenso e rapide decisioni per risolute e drastiche misure per tagliare i consumi di gas, aumentare efficienza e risparmio energetico, aumentare rapidamente le fonti rinnovabili di energia, contribuendo così anche a fare la nostra parte per tagliare le emissioni di gas serra che stanno alimentando una crisi climatica ogni giorno più allarmante.

Invece che abbiamo visto e sentito? Incertezza di orientamento, lentezza nelle decisioni e, insieme a dichiarazioni nostalgiche per il nucleare, abbiamo sentito proposte di rallentare la transizione climatica, di aumentare l’uso di carbone e di petrolio, di differenziare, giustamente, l’approvvigionamento di gas, ma senza cogliere la priorità di ridurne in modo consistente i consumi. Abbiamo sentito la proposta del presidente di Confindustria Bonomi, ripresa da alcuni esponenti politici, di sospendere il sistema europeo dell’ETS che fissa tetti, in diminuzione, per le emissioni di gas serra degli impianti che usano grandi quantità di combustibili fossili e che fa salire i costi da pagare per tali emissioni, per spingere alla decarbonizzazione. Come se la transizione climatica fosse una delle tante opzioni, disponibili a piacere, modulabile a seconda delle contingenze e non avessimo obiettivi europei vincolanti di taglio del 55% delle emissioni al 2030 e di neutralità climatica al 2050. Come mai?

La scena non è nuova, anche se non finisce di stupire. All’indomani dell’annuncio di un Green Deal europeo, basato su una transizione ecologica non più rinviabile per far fronte alla crisi climatica e alla crisi delle risorse disponibili che richiede un cambio di modello economico ed energetico, abbiamo avuto a disposizione un volume di risorse europee mai viste in passato. Le stiamo però impiegando in assenza di un quadro organico e coerente di riferimento, aggiornato ai nuovi target climatici europei, fissato con una legge per il clima, e attuando invece una serie di misure, frammentate che perseguono, a pioggia, numerosi e differenti obiettivi per i quali non sono noti -non calcolati e non rendicontati- gli effettivi impatti sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Come mai?

Ancora più degli individui, le forze politiche percepiscono ciò che è filtrato dalle loro visioni culturali: sono le visioni culturali che orientano la scala delle priorità e, quindi, le scelte  politiche. Nelle visioni culturali di diverso orientamento politico -di sinistra e di destra, conservatrici e progressiste, liberali e socialdemocratiche- permangono, nonostante anni di dibattito e di elaborazione europea e internazionale, rilevanti presenze di culture politiche che non esiterei a definire insostenibili e che costituiscono un rilevante fattore di freno, un vero e proprio fardello al piede della transizione climatica ed ecologica.

La crisi climatica che stiamo attraversando non ha precedenti. L’idea che il cambiamento del clima, di un riscaldamento globale generato dal consumo di energia fossile, abbia un impatto decisivo sulla nostra civiltà è estranea alle concezioni politiche che si basano su un’idea di progresso in grado di superare ogni limite, ogni ostacolo posto dalla natura e che mal sopportano l’idea di dover subire un rallentamento, un cambiamento rilevante di rotta, a causa di una dinamica – come quella climatica- che non siamo in grado di dominare, ma che dobbiamo subire come vincolo.

Questa stessa idea di progresso, ampiamente condivisa all’interno di culture politiche di diverso orientamento, è anche il prodotto di una lotta contro le avversità generate dalla natura che in passato è stata spesso vinta e che non riesce a capacitarsi che un evento come un cambiamento climatico possa costituire una effettiva priorità e avere  impatti devastanti e non controllabili.

È inoltre talmente radicato il modello culturale del sistema energetico basato sui combustibili fossili che non sono pochi coloro che stentano a credere, nonostante l’evidenza delle quantità  ormai prodotte, che si possa avere un’economia moderna interamente alimentata con fonti energetiche rinnovabili. Sono talmente radicati i pregiudizi sulle energie rinnovabili che non pochi politici -gli stessi che 20 anni fa le proclamavano marginali o, al massimo, complementari- non si capacitano che, in pochi decenni, possano sostituire completamente le fonti fossili.

Un altro pregiudizio politico diffuso è l’idea che, come in passato, il progresso, anche in futuro, debba coincidere con l’aumento dei consumi di energia. Cosa vi è di avanzato in motori che funzionano utilizzando meno di un terzo dell’energia che consumano? O costruendo case che diventano forni d’estate e frigoriferi d’inverno? O impiegando materie prime vergini che consumano 6 volte più energia di quella che si consumerebbe utilizzando materiali riciclati? Parlare con alcuni decisori politici di programmare tagli dei consumi di energia è sempre molto difficile: non vorrai mica farci ritornare alla candela, o farci diventare tutti frati francescani? È veramente difficile risolvere un problema -un sistema insostenibile basato sullo spreco di energia- se si usa la stessa mentalità politica che ha contribuito a crearlo e non riesce ad accettare il fatto che l’efficienza e il risparmio di energia -ancora di più oggi che costa cara- non sono più optional ma  fonti energetiche di primaria importanza.

Così come l’insostenibilità del modello economico lineare e dissipativo, in un Pianeta con risorse limitate, abitato da 8 miliardi di persone, con uno sviluppo globalizzato, benché dimostrata da analisi ben documentate e verificate, stenta a essere acquisita dalle visioni economiche di culture politiche incapaci di fare i conti con i limiti posti dalla natura e dalle sue risorse. La portata della transizione verso un modello circolare e rigenerativo di economia – indispensabile oltre che per generare benessere in un contesto di un capitale naturale limitato, anche per raggiungere la neutralità climatica – non è colta  dalle culture politiche che continuano a far coincidere l’idea di progresso e di sviluppo con la crescita indistinta di un’economia lineare, che continuano a utilizzare come misura di valutazione un’unica dimensione: quella della crescita del PIL.

La sostenibilità climatica e circolare dell’economia -che è oggi ormai la condizione indispensabile della sua qualità e della sua resilienza, quindi della sua stabilità e delle sue possibilità di generare prosperità- diventa per questa cultura politica una variabile secondaria e dipendente dall’obiettivo primario e determinante  che rimane la crescita unidimensionale e indistinta del PIL.

Anche alcune visioni politiche del benessere, del progresso sociale e dell’occupazione prescindono troppo spesso dal nuovo contesto epocale, segnato da una crisi climatica senza precedenti e da uno storico scontro in atto con i limiti delle risorse naturali disponibili. Queste visioni continuano, infatti, ad alimentare aspettative di una continua crescita -ormai ecologicamente insostenibile oltre che impraticabile- di un consumismo senza limiti, così come delle possibilità di estensione di modelli e stili di vita che generano emissioni di gas serra e alti consumi di risorse naturali  ad altri miliardi di persone, in un Pianeta con risorse ormai limitate e coinvolto in una grave crisi climatica.

Tali culture politiche, sottovalutando la portata dei cambiamenti economici ormai necessari e maturi, tendono, inoltre, a difendere prioritariamente i posti di lavoro esistenti e a illudere che proseguendo, più o meno, sulla strada del  modello di crescita dell’epoca precedente, saremmo in grado di assicurare il lavoro anche in futuro. Fa, infine, una certa impressione registrare come tali culture politiche, benché presenti in diversi schieramenti, siano spesso unite nel trascurare nella loro narrazione e, ancora di più, nelle scelte prioritarie, gli impatti sociali ed economici devastanti della crisi climatica ed ecologica, così come sono unite nel sollevare, invece, la massima attenzione su presunti impatti  sociali negativi, sul benessere e sull’occupazione, della transizione climatica ed ecologica, mai comparati con i vantaggi – quasi sempre ben maggiori-per la qualità del benessere, la sua  estensione e la capacità di inclusione sociale oltre che di generare maggiore occupazione.

Se non si contrasta l’insostenibilità ecologica di tali culture politiche, presenti in diversi schieramenti, non si riuscirà a dare slancio alla transizione ecologica. Per contrastare efficacemente tali culture politiche insostenibili sarebbe molto utile, forse indispensabile, la presenza, anche in Italia, di una cultura politica verde, consistente e adeguata alle nuove sfide. Ma questo è un altro tema che cercherò di sviluppare in un prossimo intervento.

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