di Edo Ronchi
Secondo la Commissione europea (Com 2018 97) la realizzazione degli obiettivi energetici e climatici al 2030 richiede un aumento di investimenti annui di 180 miliardi.
Secondo la Banca europea degli investimenti (Restoring EU competitiveness 2016) il volume di investimenti, necessario per colmare il divario accumulato e per recuperare competitività in Europa, nei settori decisivi della green economy (efficienza energetica, rinnovabili, adeguamento delle reti energetiche, miglioramento nella gestione delle risorse, compresi rifiuti e acque e mobilità sostenibile) sarebbe di circa 270 miliardi l’anno.
Dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro che la transizione per un’economia più verde punta a prevenire e ridurre i costi della crisi climatica e dell’uso inefficiente delle risorse non solo per ragioni ambientali.
Fra il 2000 e il 2016, a livello mondiale, gli eventi atmosferici estremi sono aumentati del 46% e nell’ultimo decennio il trend è ulteriormente peggiorato, con un aumento degli eventi estremi di ben l’86%, causando danni per 129 miliardi di dollari nel solo 2016 (Relazione Lancet, 2017). Quasi il 50% dell’esposizione al rischio delle banche nella zona euro è o direttamente o indirettamente connesso ai rischi derivanti dal cambiamento climatico (Com 2018 97).
Il consumo mondiale di materiali (biomasse, combustibili fossili, metalli e minerali non metallici) è cresciuto da 7 miliardi di tonnellate nel 1900 a 84,5 miliardi di tonnellate nel 2015: di ben 12 volte.
Con i trend attuali il consumo di materiali arriverebbe a 170/184 miliardi di tonnellate nel 2050: a raddoppiare ulteriormente in pochi decenni (The circular gap report, 2018, presentato al Forum di Davos). Un’aspettativa di crescita del consumo di materiali di questo genere non sarebbe sostenibile non solo dal punto di vista ecologico, ma avrebbe rilevanti impatti sull’economia europea, fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime, che subirebbe una crescita di costi e, per alcuni materiali, anche di disponibilità delle quantità richieste, con rilevanti ricadute sulla sua competitività.
La transizione a un modello circolare di economia che punta a minimizzare il prelievo di risorse naturali, cresce la resilienza e riduce i rischi di esposizione ai prezzi delle materie prime, consente maggiore efficienza anche perché la reintroduzione di materiali riciclati nei processi produttivi costa dal 30 al 50% in meno dell’utilizzo di materie prime vergini e riduce del 70% i rifiuti da smaltire, e i relativi costi.
Un’economia verde, a basse o nulle emissioni di carbonio e circolare nell’uso delle risorse, sta diventando un buon affare che attira un crescente interesse anche degli investitori, generando un fiorire di nuove iniziative finanziarie e di maggiore qualificazione di quelle in corso.
Ne segnalo, in particolare, due: la recente proposta di Green Bond Standard e i passi avanti compiuti a livello europeo per definire una tassonomia dei finanziamenti sostenibili. Gli standard dei green bond, definiti a livello europeo, qualificando i progetti green finanziabili e il quadro di riferimento dell’utilizzo di tali strumenti finanziari, prevedendo il reporting e la verifica sul loro impiego e sui risultati raggiunti, darebbe una nuova spinta ed una maggiore incisività a tali strumenti.
L’iniziativa sulla tassonomia, ormai giunta a un livello elevato di definizione europea, è importante per istituire un sistema europeo unificato di classificazione delle attività sostenibili, per creare norme e marchi per prodotti finanziari sostenibili e quindi per promuovere gli investimenti in progetti di green economy, chiarendo anche gli obblighi per gli investitori istituzionali e per i gestori delle attività bancarie.