Se la green economy perde le donne

a cura di Anna Pacilli

La green economy è nel pieno della sfida, anche a livello europeo, ma non è detto che l’uscita dalla crisi sarà green e non invece più brown. La sfida per un’uscita green delle crisi economica, sociale e ambientale è stata lanciata ma, appunto, niente è scontato, e l’aria che tira suggerisce la necessità di un sovappiù di impegno per non perderla.

La situazione è addirittura paradossale a casa nostra, dove in questo periodo si parla poco e male di green economy, quasi scomparsa dal vocabolario istituzionale e all’interno del nuovo governo. Unica voce dissonante, e non altro per ora, quella del ministro dei beni culturali Dario Franceschini, che ha definito il suo il vero dicastero economico del Paese. Certamente un indizio per la green economy, che in Italia può contare già in partenza su due enormi ricchezze, natura e cultura, da tutelare e valorizzare di più.

Ma un elemento nuovo può essere introdotto nella sfida della green economy: le donne consumatrici e lavoratrici; da una parte il loro protagonismo assoluto nelle scelte di acquisto, dall’altra la formazione e le capacità professionali. Anticipo già la conclusione: se si vuol dare impulso alla green economy è sulle donne che bisogna puntare.

Saranno loro a influenzare nei prossimi anni i consumi a livello mondiale: a dirlo in modo chiaro è un libro del 2010, “Le donne vogliono di più. Capire e conquistare il mercato che cresce di più al mondo”, scritto dagli esperti del Boston Consulting Group, considerato uno dei big internazionali della consulenza strategica alle imprese che affrontano sfide e vogliono crescere. Il libro fa alcuni semplici conti: le donne che lavorano nel mondo sono un miliardo, negli Stati Uniti controllano la metà della ricchezza, rappresentano la maggioranza degli studenti universitari sul pianeta e nei prossimi anni la loro capacità di influenzare i consumi crescerà di oltre 5 mila miliardi di dollari a livello mondiale. “Nei prossimi anni, la loro influenza sarà così elevata che non solo potrà aiutare a uscire dalla crisi economica, ma creerà una delle più straordinarie opportunità nella vita delle imprese che sapranno coglierla, un’opportunità anche più grande di quella offerta dai paesi emergenti”. Perché la green economy non dovrebbe cimentarsi, misurandosi con una svolta nel segno della sostenibilità?

Nel nostro piccolo, secondo il rapporto 2012 del Censis sulla situazione economica italiana, le donne sono responsabili del 66,5% del totale delle scelte di acquisto della famiglia, contro il 33,5% degli uomini. E ci sono sondaggi che danno le donne anche come più attente e sensibili degli uomini ai temi della sostenibilità: non sappiamo quanto questo sia attendibile, ma una conferma arriva per esempio da uno studio per il Parlamento europeo a proposito delle differenti abitudini fra donne e uomini in tema di mobilità. E’ stata dimostrata una loro maggiore attitudine a diversificare i mezzi di trasporto, più alta frequenza di spostamenti per motivi diversi dal lavoro, percorrenze più brevi, scelta più marcata di mezzi pubblici, bicicletta o l’andare a piedi, usando la macchina nel 46% dei casi, contro il 57% degli uomini.

Insomma, le donne sono potenzialmente in grado di cambiare e di orientare il mercato, come si diceva una volta. Dunque è innanzitutto a loro che bisognerebbe rivolgersi per dare una spinta alla green economy, valorizzando le professionalità e le capacità delle donne per interpretare al meglio questa occasione. Un terreno sul quale lavorano già brown e grey economy.

“E’ oggi che si decide, si sceglie e si costruisce il domani e noi abbiamo bisogno di tutti i talenti, degli uomini e delle donne. Conto su di voi per raccogliere la sfida e costruire con loro il futuro della nostra professione”. Sorprenderà, ma a dirlo nel 2004 è stato il presidente della Federazione francese dell’edilizia (Ffb – Fédération française du bâtiment) in occasione dell’assemblea annuale dei costruttori, lanciando la sfida di triplicare entro il 2009 il numero delle donne impegnate nel settore. L’iniziativa è segnalata in un interessante rapporto della Commissione europea, “Gender segregation in the labour market” (a cura di Francesca Bettio e Alina Verashchagina), che ricerca le cause profonde della segregazione nel mercato del lavoro per uomini e donne, analizza comparativamente i trend nei paesi dell’Unione e indica le vie di uscita auspicabili. Spulciando sulla rete, si scopre che la campagna di promozione della Federazione francese dell’edilizia per abbattere i pregiudizi nel mondo delle imprese, reclutare più donne anche per i livelli apicali, progettuali e di ricerca e innovare anche in termini di sostenibilità ambientale, è continuata negli anni nonostante la crisi.

L’edilizia è uno dei settori maschili per eccellenza, così come lo sono quelli classici della green economy, quali energia, trasporti, ma anche agricoltura (seppure quest’ultima con qualche timido segnale di inversione di tendenza): tipici esempi di segregazione di genere nel mercato del lavoro che non fanno bene neppure all’economia. I dati Eurostat riferiti al 2008 dicono che a livello europeo le donne rappresentano il 22% degli occupati nel settore elettrico così come in quello dei trasporti, il 9% nell’edilizia.

In un periodo di crisi come quello attuale, la perdita di occupazione colpisce duro anche su questi settori, che potrebbero trovare nuovo slancio proprio guardando alla green economy, come intende dimostrare tutto il lavoro degli Stati generali, centrato quest’anno sul tema “Imprese e lavori per una green economy”. E proprio perché siamo convinti della necessità e possibilità di un cambiamento radicale, epocale, di un green New Deal capace di affrontare le diverse crisi (economica, sociale e ambientale), pensiamo sia necessaria una riflessione attenta anche sulla questione di genere, non solo a vantaggio delle donne ma proprio per dare concretezza e maggiori chance a questa visione. Guardando all’oggi e immaginando che possa realizzarsi una transizione verso un’economia verde, è inevitabile mettere in conto la perdita di alcuni lavori, la scomparsa di altri, la sostituzione di/con altri ancora, ecc. Per come stanno le cose, e prendendo in esame i settori della green economy (ma anche quelli a forte potenziale green come l’edilizia, in termini di progettazione, materiali, riqualificazione, efficienza, sicurezza, ecc.), il rischio è che siano maschili sia i lavori che si perdono, sia quelli che si ricreano, sia quelli in crescita, senza impulsi effettivi e determinanti prodotti da chi, fra l’altro, orienta i consumi e interviene effettivamente nei processi educativi e formativi dei futuri cittadini. A meno di non attrezzarsi in tempo e promuovere una prospettiva di genere, con tutti i vantaggi per l’economia derivanti dalla presenza femminile, a maggior ragione in posizioni apicali o comunque di responsabilità: non a caso si dice che quello femminile non è un problema delle donne ma dell’economia.

E’ una riflessione maturata già da tempo nell’economia classica a livello europeo e internazionale, e sarebbe un grave errore non inquadrarla nel percorso dell’economia verde, in particolare in Italia, dove le donne occupate nella fascia di età 20-64 sono il 49,9% a fronte di una media europea del 62,4%. Né stupisce se il Global Gender Gap Report 2012 del World Economic Forum, che analizza a livello internazionale il divario di genere, piazza l’Italia complessivamente all’80° posto (era al 74° nel 2011): si va dal 65° posto per livello di istruzione, al 101° per partecipazione e opportunità economiche offerte alle donne, con conseguenze in termini di segregazione in specifici e limitati settori professionali, retribuzioni inferiori e ridotta progressione nel lavoro. A livello europeo le donne devono lavorare 59 giorni in più per guadagnare quanto un uomo; cercheremo di sapere se e quanto impegno in più devono mettere le italiane. Insomma, investire sulle donne per far vincere la green economy risponde a esigenze di cambiamento di modello, ma anche a motivi più generali.

Le ragioni che invitano a rifletterne sono tante e per ora ne accenniamo soltanto alcune. A partire dai numeri. Banca d’Italia calcola che se la percentuale di donne occupate raggiungesse quota 60% come fissato dall’accordo di Lisbona, il Pil in Italia salirebbe del 7%. Una valente ricercatrice di Goldman Sachs sostiene che se il tasso di occupazione delle donne eguagliasse quello degli uomini, il Pil aumenterebbe fino al 13% nell’eurozona e fino al 22% in Italia. Previsioni praticamente coincidenti con quelle dell’Ocse.

Una delle obiezioni mosse a questi ragionamenti è che a mancare è il lavoro e che, se ci fosse e andasse a beneficio degli uomini, i risultati sarebbero altrettanto positivi. Gli studi, le analisi e le esperienze smentiscono questa affermazione. Innanzitutto perché c’è una parte di Pil non conteggiato, rappresentato dal lavoro “nascosto” delle donne, soprattutto all’interno della famiglia e della cerchia parentale. Liberare le donne da questi impegni per inserirle nel mercato del lavoro vorrebbe dire in prima istanza avviare un circolo virtuoso: è stato calcolato che per 100 posti di lavoro assegnati alle donne si creerebbero 15 posti di lavoro aggiuntivi nei servizi, da destinare a uomini e donne.

E poi c’è il valore della diversità, che fa funzionare meglio anche le imprese, a maggior ragione se si realizza anche ai livelli alti di responsabilità. È citata spesso una ricerca del 2012 dell’università californiana di Berkley, che ha studiato per vent’anni 1.500 aziende in base al parametro Esg (environment, social, governance), analizzando la presenza di donne nei ruoli apicali e manageriali. La statistica ha dimostrato la correlazione fra presenza di donne e migliori performance dell’azienda, in termini anche di sopravvivenza e di sostenibilità. In più, particolare non secondario, alla maggiore presenza di donne manager ha corrisposto una drastica riduzione di fenomeni di corruzione e tangenti.

Proprio in questi giorni, l’amministratore delegato di una delle grandi banche italiane ha affermato che l’assenza di donne al vertice è un problema di conto economico. Nel gruppo il 59% dei dipendenti in Italia è al femminile, ma solo il 18% di loro occupa posizioni dirigenziali, a differenza di quanto accade negli uffici dello stesso gruppo in centro-est Europa, dove le manager sono il 35%, fino addirittura al 40% in Turchia. Una situazione paradossale del nostro Paese dove, sostiene l’amministratore delegato, tra i problemi che fanno “perdere” donne ci sono in cima quelli familiari, per i quali lo Stato è ancora carente. E torniamo così al punto di partenza. In conclusione, se a dire tutto questo sono banche, banchieri, finanziarie e esperti di marketing, c’è da crederci! I movimenti delle donne in Italia hanno lanciato il Pink New Deal: anche cromaticamente, non stonerebbe affatto accanto al Green New Deal.

Anna Pacilli

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