Dopo lo svuotamento dell’Accordo di Copenhagen

di Edo Ronchi

L’Accordo di Copenhagen del 18 dicembre ha concluso la 15^ Conferenza mondiale Nazioni Unite dedicata al cambiamento climatico.

Pur riconoscendo la necessità, fondata sul IV Rapporto degli scienziati dell’IPCC, di ridurre le emissioni di gas serra in modo da mitigare l’aumento medio della temperatura globale entro i 2°C, non indica, come è noto, obiettivi di riduzione delle emissioni gas serra, nè globali, nè ripartiti per Paese, nè per il 2020 nè per altre date, nè indica l’impegno ad arrivare  ad un nuovo Trattato internazionale, legalmente vincolante, per mitigare la crisi climatica. Contiene, invece, due allegati, in bianco, dove i Paesi industrializzati dovranno scrivere, entro gennaio 2010, non i loro impegni di riduzione, ma le misure che intendono prendere. Contiene infine un impegno di finanziamento per politiche e misure di mitigazione e di adattamento di 30 miliardi di dollari per il periodo 2010-2012 di 100 miliardi di dollari entro il 2020, che dovrebbero essere versati dai Paesi industrializzati ai Paesi in via di sviluppo, anche se non è precisata, nel citato accordo, la suddivisione di tali versamenti fra i Paesi industrializzati.

Nonostante la crisi climatica, come riconosce lo stesso Accordo, sia un problema grave e preoccupante per il nostro futuro, a Copenhagen, dopo due anni di trattative, con migliaia di delegati di 192 Paesi, con la presenza di 120 capi di Stato e di governo, non si sono fatti passi avanti. Si tratta certamente di un problema di vasta portata: nientemeno di cambiare modelli di produzione e di consumo, per aspetti non secondari a livello mondiale. E, come è stato fatto notare, poteva anche finire molto peggio. Fino a giovedì 17 infatti, sembrava che non si arrivasse ad alcuna conclusione. Sembrava concreto perfino il rischio che non si arrivasse ad alcun tipo di accordo che includesse i grandi Paesi, grandi emettitori, come la Cina e gli Stati Uniti. L’Accordo di Copenhagen, invece, si osserva, porta dentro un percorso, intanto di “trasparenza”, cioè di verifica di misure adottate e di loro risultati in termini di riduzione di emissioni, anche in Cina ed è sostenuto anche dagli Stati Uniti. Anche tenedo conto di tutto ciò, non si può non vedere tuttavia la distanza, enorme, fra ciò che andrebbe fatto per mitigare questa crisi climatica, e, come andrebbe fatto, rapidamente, e ciò che prevede l’Accordo di Copenhagen. Certamente le trattative internazionali non sono finite: Copenhagen è una tappa, è già prevista una riunione a Bonn e, alla fine del 2010, una nuova Conferenza a Città del Messico. Ma resta il fatto che l’Accordo di Copenhagen è stato svuotato dei suoi contenuti: svuotato dei temi richiesti per un impegno serio contro la crisi climatica e che erano stati posti (sia pure senza accordo di merito) all’ordine del giorno della Conferenza. Tutto ciò è grave e richiede un’adeguata riflessione per vedere se è possibile contribuire a cambiare questa situazione ( cioè se Copenhagen è solo una battuta d’arresto di un percorso che riprenderà col passo giusto), oppure se segna la registrazione del fatto che, con gli attuali assetti politici mondiali e dei principali Paesi, un Trattato internazionale efficace e tempestivo per mitigare la crisi climatica, non si farà. Dopo Copenhagen possiamo dire di aver visto e toccato con mano che è possibile che la crisi climatica abbia un pieno e catastrofico corso perchè è possibile (anzi, oggi dovremmo dire che è probabile) che non si adottino le misure necessarie per contrastarla.

Senza pensare di esaurire un dibattito che è appena iniziato, propongo alla discussione tre punti che vedo fra le cause dell’insuccesso di Copenhagen: la presenza in vari Paesi di settori ancora ampi di negazionismo e di freno all’impegno per la crisi climatica; una new economy promettente, ma ancora debole; l’idea, acora forte presso molti responsabili di governo, che ci si possa disimpegnare da questa sfida senza dover pagare niente, anzi sperando di ricavare qualche vantaggio economico dal disimpegno.

Finita la Conferenza, sabato, ho letto un messaggio inviato ai suoi sostenitori da Sarah Palin, che potrebbe essere l’avversaria di Obama alle prossime Presidenziali, nel quale criticava la Conferenza di Copenhagen poichè sarebbe stata viziata, in partenza, dall’arroganza…di pensare che l’uomo possa alterare il clima che invece, così come il resto dellla natura, può essere dominato solo da Dio. La Palin, come è noto, è un’esponente della destra fondamentalista evangelica statunitense, ma negli USA l’opposizione al Protocollo di Kyoto prima e, ora, ad un nuovo Trattato, resta molto consistente. In Cina, per il ceto politico dominante del partito comunista, partito unico, in un  sistema privo di libertà anche fondamentali, le preoccupazioni ambientali, e per la crisi climatica, raramente stanno in primo piano. Anche a me è successo, in un paio di occasioni, di ascoltare in Conferenze internazionli esponenti politici cinesi esprimersi in termini molto scettici sulla crisi climatica. E in Europa? In Europa le posizioni negazioniste e di disimpegno sono sempre state tradizionalmente più deboli che in altre parti del mondo. Ma non assenti. Non voglio citare il solito caso dell’Italia, ma per esempio, quelli di alcuni Paesi che con l’allargamento a 27, sono entrati nell’Ue e che notoriamente hanno governi poco o per nulla impegnati per fronteggiare la crisi climatica. Sono portato a pensare che la posizione europea che a Copenhagen è apparsa appannata -meno grintosa che a Kyoto, questo è certo- sia anche il prodotto di questo allargamento che ha rafforzato anche in Europa le posizioni di  disimpegno. La seconda questione rigurada la green economy che potrebbe diventare una leva decisiva anche per il taglio delle emissioni di gas serra. Sfidare l’utilizzo di energia fossile con quella proveniente da fonti rinnovabili, moltiplicare l’efficienza energetica, sviluppare il riciclo e tutte le potenzialità di un’economia a basse o nulle emissioni di carbonio, come si sta cominciando a fare, richiede un salto di quantità e qualità: allora si scatenerà la rincorsa e nessuno, tantomeno la Cina, vorrà restate indietro.

La terza questione riguarda la necessità di tagliare le illusioni a chi pensa di poter emettere gas di serra gratis, senza pagare niente a nessuno. In attesa che si arrivi ad una qualche forma di carbon tax che, come proposto dal governo francese, potrebbe anche non essere mondiale, ma imposta anche sulle importazioni ad alto contenuto di CO2, in Europa, si potrebbe cominciare, da parte di ONLUS internazionali, ad indicare i Paesi che dovendo ridurre le emissioni di gas serrra e non lo fanno e organizzare campagne informative mondiali per non comperare prodotti provenienti da tali Paesi. Non mancano al mondo le sacche negazioniste e sostenitirici del disimpegno in materia di clima, ma, ormai c’è una larga opinione pubblica mondiale che chiede impegno concreto e rilevante: è fatta anche da centinaia di milioni di consumatori che potrebbero, con qualche piccolo costo personale, punire gli inquinatori e non far dormire più sonni tranquilli ai loro governi.

 

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