Svegliare il gigante che dorme

di Alessandra Bailo Modesti

Il sistema finanziario sarà decisivo nei prossimi decenni nel mobilitare le risorse finanziarie per affrontare la crisi climatica sia in termini di investimenti aggiuntivi che nella dismissione di asset non allineati con gli obiettivi climatici quali quelli in fonti fossili. Tuttavia esso è ancora un gigante dormiente che solo in maniera marginale sta incorporando i fattori ambientali e sociali tra gli indirizzi e le valutazioni che guidano le scelte di investimento.

A livello mondiale gli investitori istituzionali gestiscono asset per più di 200 trilioni di dollari; più che scarsità di risorse finanziarie si direbbe che si tratta piuttosto di una questione di allocazione… Infatti, solo percentuali molto ridotte di tali asset sono investiti in base a valutazioni ambientali e sociali. I capitali a livello mondiale non incorporano ancora pienamente i fattori climatici nella stima degli asset e nella valutazione dei rischi.

Eppure ovunque il cambiamento climatico sta mutando le condizioni in cui ci si troverà a operare sia in termini di approvvigionamento di fonti energetiche sia in termini di disponibilità di materie prime e di risorse naturali così come in termini di sostenibilità dell’agricoltura. Come riporta un recente rapporto dell’UNEP(1): il capitale naturale è in declino in 116 paesi su 140; 6,5 milioni sono le morti premature ogni anno a causa dell’inquinamento dell’aria legato ai sistemi energetici; circa 26.4 milioni di persone ogni anno sono state disperse a causa di disastri naturali a partire dal 2008 (l’equivalente di una persona al secondo); un terzo della terra arabile è frammentata da intere aree in cui il suolo è degradato con perdite economiche dai 6,3 ai 10.6 dollari all’anno.

Affrontare una sfida di tale entità non riguarderà solo qualche settore dell’economia ma richiederà una revisione dell’impianto economico e finanziario attuale per allinearlo agli obiettivi di sviluppo sostenibile. Ad oggi, ad esempio, pochi sono stati i progressi compiuti per alimentare con $100 miliardi all’anno i flussi di risorse verso le economie in via di sviluppo attraverso il Green Climate Fund mentre l’UNEP calcola che saranno necessari circa $90 trilioni di investimenti al 2030 se si vuole raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (2).

Gli Stati possono fare molto per creare condizioni adeguate allo sviluppo di una finanza green attraverso politiche di indirizzo, riforme fiscali in chiave ecologica, meccanismi di carbon pricing, sistemi dei conti ambientali, etc. Tuttavia il settore finanziario e i singoli operatori possono già da oggi avviare iniziative in questa direzione senza attendere il decisore pubblico. Appare chiaro che le risorse necessarie non possano essere mobilitate solo attraverso investimenti pubblici ma richiedano necessariamente di fare leva sull’investimento privato. Il sistema finanziario – dagli enti regolatori ai singoli operatori finanziari – giocherà un ruolo decisivo in questo senso per internalizzare i costi ambientali e creare le convenienze di mercato che facciano affluire investimenti verso una green economy con lo scopo di tutelarsi dai rischi legati al clima e al degrado ambientale, anticipare normative più stringenti sulla mitigazione introdotte in attuazione dell’Accordo globale sul clima, evitare di conservare nei propri portafogli di investimento “stranded asset”. In questo senso, politiche pubbliche lungimiranti e indirizzi chiari e stabili saranno centrali nell’indirizzare i mercati finanziari e dare stabilità ai flussi finanziari, nel migliorare la rendicontazione dei soggetti finanziari e delle imprese, nell’avviare un programma di monitoraggio e misurazione dei progressi verso una finanza green.

Molti sono i segnali positivi che ci dicono che il settore finanziario a livello mondiale sta cominciando a guardare con interesse verso gli investimenti green e vari enti e meccanismi stanno nascendo per promuovere una finanza sostenibile. Colossi come Apple emettono green bond, interi Stati – come la Francia – programmano emissioni di titoli di stato green. Il Fondo sovrano norvegese, tra i più grandi al mondo, ha scelto di escludere dal proprio portfolio 52 compagnie operanti nel mercato del carbone. Il governatore della Banca d’Inghilterra parla del cambiamento climatico come della “tragedy of the horizon”. Il 2015 è stato un anno record per i green bond che hanno raggiunto un totale di 42 mld di dollari (+ 272% rispetto al 2013) e secondo l’agenzia di rating Moody’s si prevede che entro la fine del 2016 si vada oltre i 50 mld di dollari e il G20 ha lanciato una task force e un piano per lo sviluppo della finanza green.

Si tratta, tuttavia, di segnali in ordine sparso nonostante esistano numerosi sforzi a livello internazionale, da parte di autorevoli organizzazioni, per evidenziare i benefici per la resilienza nel medio-lungo termine del sistema finanziario derivante dall’orientamento degli investimenti verso uno sviluppo sostenibile. Ma soprattutto per sostenere la necessità di un impegno non solo da parte delle singole nazioni, ma di esse alleate al settore privato e quello degli investimenti per indirizzare il sistema economico verso un’economia a basse emissioni di carbonio e efficiente nell’uso delle risorse.

La crisi climatica richiede uno sforzo congiunto a livello globale e potrebbe aiutare a delineare anche un orizzonte caratterizzato da un migliore profilo etico delle scelte finanziarie così come dei criteri in base ai quali vengono assegnati i fondi a livello globale e vengono concessi finanziamenti verso le economie in via di sviluppo. Non basterà la somma dei singoli sforzi nazionali per centrare l’obiettivo ma andranno sviluppati progetti comuni a livello internazionale che grazie ad un effetto moltiplicatore possano prepararci ad affrontare le peggiori conseguenze della crisi climatica e gestire la fase di adattamento alle mutate condizioni del clima. Il cambiamento climatico, infatti, richiede di uscire dai confini nazionali andando in controtendenza rispetto al quadro attuale per ristabilire un regime di collaborazione tra gli Stati contro una sfida che vede tutti coinvolti consentendo anche di promuovere una migliore giustizia ambientale e una maggiore equità.

Il cambiamento climatico costituisce una minaccia per la stabilità del sistema finanziario (anche il rapporto del World Economic Forum di quest’anno lo inseriva tra le principali minacce alla tenuta dell’economia mondiale) e autorevoli studi evidenziano come esso potrà portare a crisi finanziarie, a perdite tra il 5 e il 20% del PIL mondiale e a una caduta degli standard di vita. Nonostante i segnali positivi, il sistema finanziario non appare ancora adeguatamente equipaggiato per condurre la necessaria trasformazione. Se è vero che gli operatori finanziari stanno cominciando a misurare l’impronta ambientale dei propri portafogli di investimento e ad aumentare la propria esposizione verso asset green, è anche vero che solo una minoranza di essi sta sviluppando strategie climatiche coerenti e complessive.

La maggior parte dei flussi finanziari sono gestiti in base a considerazioni di breve termine, in alcuni casi quadrimestrali, guidate da meccanismi speculativi che hanno il solo obiettivo di aumentare al massimo i profitti senza curarsi degli impatti sociali e ambientali prodotti. La chiave green rappresenta anche un’occasione per ricollegare la finanza con l’economia reale riportandola ad investimenti che abbiano concreti e benefici impatti sulla società e sul sistema produttivo (in particolare le PMI) per innalzare gli standard di vita, migliorare il benessere, creare nuovo sviluppo durevole. Per ora il gigante ha fatto qualche sbadiglio ma quando si dovesse svegliare esso diventerebbe un insostituibile alleato nella lotta al cambiamento climatico.

 

Note:
1. UNEP, Financing sustainable development. Moving from momentum to transformation in time of turmoil, Settembre 2016
2. ibidem
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