La riforma dei rifiuti a 20 anni dal d.lgs 22/97

di Edo Ronchi

La riflessione sui contenuti e sugli effetti prodotti da quella riforma può essere utile per anche per trarre spunti e indicazioni per il recepimento nell’ordinamento nazionale del pacchetto di Direttive europee di prossima approvazione in materia di rifiuti-circular economy.

1.I nuovi obiettivi proposti a livello UE sono raggiungibili per l’Italia?

Questi obiettivi confermano il 50% al 2020 e aumentano al 60% di preparazione per il riutilizzo e per il riciclo dei rifiuti urbani in peso al 2025 e al 65% al 2030. Lo smaltimento dei rifiuti urbani in discarica dovrebbe scendere sotto il 10% entro il 2030, secondo le proposte del Parlamento Europeo, sotto il 5% . L’Italia non dovrebbe temere gli obiettivi europei avanzati in materia di riciclo dei rifiuti urbani e di forte riduzione dello smaltimento in discarica. Non dobbiamo subire l’immagine negativa prodotta dall’impatto mediatico di alcuni casi arretrati e di alcune crisi nella gestione dei rifiuti, ma avere maggiore consapevolezza del fatto che l’Italia è ormai un Paese avanzato in questo settore: ha fatto in questi 20 anni enormi passi avanti ed è perfettamente in grado di farne altri.
Nel 1997 venivano smaltite in discarica 21,3 Mton di rifiuti urbani (80%); nel 2015, anche se i rifiuti urbani prodotti sono aumentati di quasi 3 Mton – a 29,5 Mton – quelli smaltiti in discarica sono scesi a 7,8 Mton (26%). La raccolta differenziata dei rifiuti urbani è aumentata dal 9,4% del 1997 al 47,6 % del 2015, da 2,5 Mton a 14 Mton.
L’Italia è già in traiettoria verso il 50% al 2020 ed è in grado di raggiungere il 60% al 2025 e il 65% al 2030 di avvio al riciclo dei rifiuti urbani.
I ritardi che ancora persistono, in alcune città e Regioni, richiedono maggiore attenzione anche a livello nazionale. Il 47,6 % di raccolta differenziata nel 2015 è una media nazionale composta da un ottimo 58,6% di RD al Nord, di un 43,8% al Centro e di un, largamente insufficiente, 33,6% al Sud. Dei 7,8 milioni di rifiuti urbani smaltiti in discarica in Italia (26%), ben 4 provengono dal Sud dove il 43% dei rifiuti urbani finisce ancora in discarica a fronte del 13,8% al Nord. Non tutto il Sud però è in ritardo: la Sardegna è al 56% di raccolta differenziata e la Campania e l’Abruzzo sono a circa il 50%. Rimangono, tuttavia, particolarmente arretrate le raccolte differenziate in 5 Regioni meridionali: la Basilicata e la Puglia sono al 30%, il Molise e la Calabria al 25% e la Sicilia al 13%.
Alcune amministrazioni regionali sono in ritardo e carenti sia nella programmazione – in particolare nella localizzazione e autorizzazione degli impianti di trattamento della frazione organica – sia nei sostegni tecnici e finanziari ai Comuni per organizzare buone raccolte differenziate. Le amministrazioni comunali ancora in ritardo nelle raccolte differenziate sono carenti nell’indirizzo politico, nella capacità tecnica e nelle modalità e contenuti dell’affidamento del servizio di raccolta dei rifiuti urbani. Questi ritardi sono recuperabili con più forti azioni di supporto tecnico, con indirizzi e richiami e, nel caso non sortiscano effetti adeguati in tempi stabiliti, ricorrendo – evitando gli errori del passato – in modo mirato e circoscritto a commissari ad acta, con il mandato preciso di far partire e sviluppare un idoneo sistema di raccolta differenziata dei rifiuti urbani.

 

  1. I buoni risultati mediamente raggiunti nella gestione dei rifiuti urbani in Italia sono il risultato innanzitutto di un buon sistema di gestione dei rifiuti d’imballaggio e dei miglioramenti nella gestione della frazione organica: questi restano i perni imprescindibili anche per i futuri obiettivi europei sulla circular economy per i rifiuti urbani. Per i rifiuti organici occorre proseguire sulla strada avviata, rendendo obbligatoria, senza ambiguità, la loro raccolta separata, incoraggiando le filiere promettenti di riciclo, della chimica verde e del biometano e prevedendo forme di coinvolgimento della responsabilità estesa dei produttori almeno delle filiere principali.

Gli obiettivi europei per i rifiuti d’imballaggio prevedo il 65% di tutti gli imballaggi immessi al consumo avviati al riciclo e al riutilizzo entro il 2025 (obiettivo già superato in Italia, dove nel 2015 eravamo già al 67%) e dovrebbero salire al 75% 2030, obiettivo impegnativo ma fattibile col sistema italiano. Lo stesso dicasi per le diverse tipologie: dovrebbero salire al 55% quelli in plastica (siamo al 41%), al 60%  per il legno (siamo al 61%) e al 75% per la carta (siamo all’80%), alluminio (siamo al 70%), metalli ferrosi (siamo al 73,4%) e vetro (siamo al 71%).

Gli obiettivi al 2030 per gli imballaggi sono più impegnativi: dovranno salire al 75% per il legno e all’ 85% carta, vetro, metalli ferrosi e alluminio (plastica resta al 55%). Il sistema Conai-Consorzi di filiera degli imballaggi assicura comunque il ritiro – e prioritariamente l’avvio al riciclo – di tutte le frazioni raccolte separatamente di carta, vetro, plastiche, legno, alluminio e acciaio, anche quando il mercato non le assorbe direttamente (per esempio quando il prezzo delle materie prime vergini cala come è successo per il petrolio e quindi per le plastiche vergini), versando ai Comuni, un corrispettivo che copre i maggiori oneri sostenuti per la loro raccolta differenziata. E’ consentito ai produttori e utilizzatori di imballaggi di organizzarsi anche autonomamente o di dare vita in forma associata ad altri Consorzi, purché assicurino la raccolta dei propri imballaggi sull’intero territorio nazionale. Poiché questa condizione ha ostacolato la nascita di altri consorzi, c’è chi ha proposto di eliminarla, per alimentare la  concorrenza fra numerosi consorzi nella stessa filiera.
E quindi, sempre nella stessa logica, per sviluppare il mercato e consentire l’approvvigionamento in concorrenza di più consorzi per filiera, di eliminare anche la privativa comunale nella raccolta dei rifiuti urbani.

Ma senza una adeguata regolazione del funzionamento del mercato, mirata ad evitare fenomeni di “cherry picking” (di raccolta dei rifiuti urbani e degli imballaggi più facili da raccogliere e più convenienti da riciclare), sarebbe impossibile o comunque molto arduo:

  • assicurare il servizio universale di raccolta dei rifiuti urbani (di tutti i rifiuti prodotti da tutti i cittadini ),
  • non penalizzare i cittadini che fanno le raccolte differenziate, non facendo loro pagare di più (violando quindi il principio chi inquina paga),
  • assicurare una bassa elusione dell’obbligo della responsabilità estesa (ed anche condivisa) del produttore,
  • mantenere un sistema che si basa su organizzazioni che non hanno finalità lucrative, che devono assicurare un servizio che non ha solo un valore economico, ma è di interesse generale – sociale e ambientale,
  • garantire il raggiungimento e il mantenimento di obiettivi europei, quantitativi e obbligatori non solo di raccolta, ma di avvio al riciclo dei rifiuti d’imballaggio.

Sull’entità del contributo ambientale si discute da anni: una parte di chi lo paga –una parte dei produttori e degli utilizzatori di imballaggi- lo ritiene troppo oneroso e lamenta di aver dovuto pagare più di ogni altro produttore di rifiuti (alcuni dei quali, anche per flussi importanti come i rifiuti organici o la carta grafica, non hanno dovuto pagare nulla); una parte di chi lo riceve – alcuni comuni e loro aziende di raccolta – ritiene che sia troppo basso e che copra una parte limitata dei costi delle raccolte differenziate. Il recepimento della nuova Direttiva in materia di EPR dovrebbe essere l’occasione per porre un argine all’eccesso di polemiche in questa materia e per regolare meglio tale contributo ambientale, assicurando un’applicazione più estesa – non solo agli imballaggi- un maggior legame fra il contributo ambientale e i costi delle raccolte, la loro qualità e il grado di riciclabilità delle diverse frazioni dei rifiuti , fissando modalità per il calcolo di costi ottimizzati, per incentivare le gestioni più efficienti e disincentivare quelle inefficienti.

 

3. Con l’intento di rafforzarne l’applicazione, la nuova Direttiva affida, salvo eccezioni, agli Stati l’applicazione dei criteri comunitari che fissano le condizioni del trattamento di un rifiuto che consentono di realizzare un prodotto, non più rifiuto (End of waste).

L’Italia dispone già di un sistema di norme secondarie – i DM sul recupero semplificato introdotti con DLgs 22/97, diventati poi anche misure “End of waste”. Secondo l’ultimo Rapporto Ispra, benché la quantità individuata di rifiuti speciali prodotti sia enormemente cresciuta da 61 Mton nel 1997 a ben 130,5 Mton nel 2014 (anche per la maggiore cura con cui vengono calcolati e stimati, anche se permangono differenze con Francia e Germania per un diverso regime per la gestione delle terre e rocce da scavo) lo smaltimento in discarica dei rifiuti speciali è sceso da 21 Mton del 1997, a 11,4 Mton del 2014 e la crescita del riciclo/recupero di materia dei rifiuti speciali è stato impressionante: dalle 13 Mton del 1997 alle 83,4 Mton del 2014. Questi cambiamenti ci hanno fatto risalire dalla coda alla testa nella classifica europea della gestione dei rifiuti speciali.

Che l’autorizzazione allo svolgimento di attività di recupero dei rifiuti con caratteristiche di “End of waste” possano essere rilasciate anche dalle Regioni, dovrebbe essere ormai pacifico. Ma conosciamo anche le difficoltà tecniche e operative che possono incontrare le Regioni nel regolare materie tecnicamente complesse come questa ed anche i rischi di una differenziazione di autorizzazioni regionali con contenuti magari diversi da Regione a Regione. I nostri DM sul recupero andavano aggiornati da tempo, tenendo conto delle nuove tipologie di rifiuti, di nuove tecniche e nuovi prodotti che si sono sviluppati in questi venti anni. Facciamolo almeno ora, utilizzando l’impianto dei DM sulle procedure semplificate di recupero come un punto di forza acquisito.

Secondo l’elaborazione di Ecocerved fatta sulla base dei dati del registro delle imprese e dei MUD, pubblicata in “L’Italia del riciclo 2014” dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da FISE Unire, le imprese che fanno attività di gestione rifiuti in Italia sono 6.017 con circa 155 mila addetti . Di queste ben 5.644, la gran parte, sono imprese che fanno attività di recupero (si tratta di riciclo di materia, visto che le unità locali che fanno recupero di energia sono solo 63), con 128 mila addetti (gli addetti delle imprese di recupero rifiuti sono aumentati del 19% dal 2008 ,nonostante gli anni di recessione ).
Delle 6.017 imprese che gestiscono solo rifiuti sono disponibili dati economico-finanziari dei bilanci solo di circa la metà (il 47%): di 2.805 imprese con 104 mila addetti che hanno un fatturato pari a 33,6 miliardi di euro. Basandoci su un fatturato medio per addetto, potremmo ipotizzare un fatturato totale del settore di circa 50 miliardi di euro, riferito al totale dei 155 mila addetti. Alle 6.017 imprese dedicate alla gestione dei rifiuti, andrebbero aggiunte anche altre 3.156 imprese, con altri 183 mila addetti, che gestiscono rifiuti come loro attività secondaria o che utilizzano il recupero di rifiuti nel proprio ciclo produttivo caratteristico.
E ancora più in generale la gestione dei sottoprodotti e dei rifiuti è un problema economico rilevante per l’approvvigionamento di materie prime e per la competitività economica.
In un contesto di green economy gli aspetti ecologici d economici vanno affrontati insieme.
Le attività delle imprese richiedono un quadro di riferimento chiaro, coerente e, possibilmente, stabile per sviluppare ricerca, innovazione, investimenti. In materia di rifiuti, ormai così importante, occorre prestare maggiore attenzione ad evitare norme sporadiche, scoordinate, difficilmente applicabili o che generano effetti non previsti o non adeguatamente valutati.

 

Download “La riforma dei rifiuti a 20 anni dal d.lgs 22/97 e alla vigilia delle nuove Direttive rifiuti-circular economy” Pubblicato il: 7 Feb 2017

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