Le imprese, la neutralità climatica e la trappola delle compensazioni

di Andrea Barbabella, coordinatore di Italy for Climate

da Repubblica

 

L’Accordo globale sul clima, ratificato nel 2015 a Parigi da oltre 190 Governi, ha regalato al mondo una roadmap chiara e condivisa, incentrata sull’obiettivo della neutralità climatica entro la metà del secolo in corso secondo l’approccio delle “emissioni nette zero”.

Il termine nette comporta che potremo raggiungere lo zero anche in presenza di una certa quantità di emissioni diciamo incomprimibili (perché, ad esempio, non disponiamo ancora delle tecnologie adatte o perché i costi sono del tutto insostenibili) ma a patto che queste siano “compensate” da un quantitativo equivalente di gas serra sottratto dall’atmosfera. Questo potrà avvenire tramite sistemi tecnologici di cattura, che purtroppo al momento scontano una serie di limiti tecnici ed economici e sono ancora marginali, ovvero attraverso assorbimenti “naturali”, ad esempio prodotti dalla crescita delle foreste o dei quantitativi di carbonio contenuti nei suoli (generando un aumento del c.d. “carbon stock”).

Tecnicamente questo approccio è giustificato perché quello che conta per contrastare il riscaldamento globale è fermare l’aumento della concentrazione in atmosfera di gas serra, a cominciare dalla CO2: se un Paese, ma anche una città o un’azienda, da un lato emette un kg di CO2 e, contestualmente, dall’altro sottrae dall’atmosfera la stessa quantità, il contributo finale alla concentrazione di gas serra può ragionevolmente essere considerato nullo.

L’offsetting nelle strategie di decarbonizzazione delle imprese

Oltre a produrre una roadmap e un approccio alla definizione del target di riduzione delle emissioni condivisi, la Conferenza di Parigi ha anche impresso una forte accelerazione al coinvolgimento del settore privato nel contrasto alla crisi climatica. Negli ultimissimi anni un numero crescente di imprese ha deciso di impegnarsi in prima persona adottando – e in alcuni casi addirittura anticipando – l’obiettivo globale della neutralità climatica a livello di singola organizzazione. Per far questo, oltre a ridurre le emissioni dirette così come quelle della filiera di approvvigionamento, attraverso interventi legati ad esempio all’efficientamento energetico o alla diffusione di fonti rinnovabili, molte imprese hanno iniziato a compensare una parte delle proprie emissioni, ricorrendo alla pratica dell’offsetting, ossia acquistando sul mercato volontario i c.d. crediti di carbonio. Questi dovrebbero, e il condizionale è d’obbligo come vedremo, certificare che un certo quantitativo di CO2 sia stato assorbito dall’atmosfera grazie a progetti di varia natura, consentendo così all’impresa di scontare una parte delle proprie emissioni.

Questa pratica è andata diffondendosi molto rapidamente, trainata dalla volontà di molti imprenditori di voler tagliare quanto prima il traguardo del “net zero”. Secondo i dati pubblicati da Ecosystem Marketplace, il principale portale informativo sul mercato dei crediti di carbonio, nel 2021 il giro d’affari generato da crediti di carbonio è quadruplicato rispetto all’anno precedente, arrivando a superare la i 2 miliardi di dollari (cumulati negli anni) con l’emissione di circa 1 miliardo di tonnellate di crediti di CO2. Ossia all’incirca come tutte le emissioni di anidride carbonica dell’America del sud o, se preferite, del trasporto aereo e marittimo internazionale messi insieme.

L’indagine del Guardian: 9 volte su 10 la compensazione è un fake

Tutto bene quindi? Non proprio. Qualche giorno fa sono stati resi pubblici i risultati di un’indagine portata avanti dalla testata giornalistica inglese The Guardian, dal settimanale tedesco Die Zeit e dall’organizzazione no-profit SourceMaterial. Al centro dell’indagine i crediti di carbonio certificati da Verra, l’organizzazione che gestisce il principale standard mondiale nel mercato volontario (VCS – Verified Carbon Standard) e che certifica i crediti rilasciati da importanti iniziative come Redd+, supportata direttamente dalle Nazioni Unite. Secondo l’indagine, circa il 94% dei crediti analizzati non comporterebbe in realtà alcun beneficio per il clima: in altri termini, non garantendo alcun reale assorbimento di CO2 dall’atmosfera, non sarebbe in grado di compensare alcuna emissione.

Possibile che nessuno sapesse nulla? In realtà, almeno per gli addetti ai lavori, non si tratta affatto di una sorpresa e sono molti oramai gli articoli che, da alcuni anni, denunciano le criticità che si nascondono dietro alla pratica dell’offsetting. Tanto è vero che diverse importanti iniziative che ruotano attorno al mondo delle strategie di decarbonizzazione delle imprese hanno già preso provvedimenti per limitare i rischi, a cominciare da quelli reputazionali, connessi a un ricorso eccessivo all’offsetting. Così, ad esempio, il GHG Protocol, lo standard più diffuso al mondo per la rendicontazione delle emissioni del settore privato, già da diverso tempo ha introdotto l’obbligo di una “doppia rendicontazione”, tenendo distinte le emissioni realmente prodotte da un’organizzazione da quelle compensate tramite crediti di carbonio. Allo stesso modo Science Based Target, la principale iniziativa internazionale che certifica la solidità e la coerenza dei target di riduzione delle imprese con l’obiettivo globale net zero, già da alcuni anni nelle linee guida specifica che “l’uso delle compensazioni non viene contabilizzato come una riduzione delle emissioni valida per il conseguimento dei target”.

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Le criticità dell’offsetting: quali rischi si nascondono dietro ai progetti di compensazione

Ma come è possibile che più di 9 crediti di carbonio su 10 non portano ad alcun beneficio per il clima (secondo un’indagine che andrà comunque verificata)? E come mai, già oggi, gli standard di rendicontazione più avanzati limitano o escludono del tutto la possibilità di compensare le proprie emissioni tramite crediti di carbonio certificati? Il motivo è che tutto il meccanismo di certificazione dei crediti di carbonio, nell’ambito del c.d. mercato volontario, non è mai stato regolato a livello internazionale e presenta tutt’oggi numerose criticità irrisolte. Vediamone tre tra i più rilevanti.

  • Avoidance Vs removal: i crediti di carbonio tolgono davvero CO2 dall’atmosfera?

Fin qui si è dato per scontato che i crediti di carbonio certifichino la capacità di alcuni progetti di assorbire CO2 dall’atmosfera. In realtà questo è vero solo in alcuni casi, per lo più legati alla messa a dimora di nuovi alberi che, crescendo ed aumentando lo stock di carbonio incorporato nella biomassa, ogni anno sottraggono un certo quantitativo di CO2 dall’atmosfera (secondo un approccio c.d. di removal).

In molti altri casi, i crediti di carbonio sono generati da iniziative che non rimuovono affatto la CO2 dall’atmosfera, ma evitano che ulteriore CO2 venga emessa, secondo un approccio c.d. di avoidance. È il caso, ad esempio, di progetti di tutela delle aree forestali, come avviene nell’ambito dei già citati Redd+. In questo caso il problema è duplice: da un lato viene emesso un credito che non è collegato a nessun assorbimento di CO2; dall’altro il credito è riconducibile a quella che potremmo definire una “ipotesi di scenario” che nessuno potrà mai confermare (ad esempio al fatto che se non avessi recintato una determinata foresta questa sarebbe stata certamente bruciata). Ma forse è ancora più grave il fatto che, per la maggior parte dei crediti di carbonio in circolazione, non sia possibile risalire all’approccio utilizzato e, quindi, capire se sto effettivamente finanziando un progetto di rimozione della CO2 dall’atmosfera oppure no.

  • La questione tempo: quando viene sottratta la CO2 dall’atmosfera e per quanto tempo?

Quando un’impresa effettua una compensazione, lo fa in genere riferendosi alle emissioni di uno specifico anno. Ma molto spesso i crediti di carbonio con cui annulla quelle emissioni fanno riferimento ad assorbimenti futuri, come quelli generati da un nuovo bosco nell’arco dei prossimi trenta o quarant’anni. Ad esempio un’impresa che nel 2022 ha emesso 100 tonnellate di CO2 acquista un quantitativo di crediti equivalenti per potersi dichiarare a zero emissioni: ma in realtà quelle 100 tonnellate di assorbimenti garantiti dal credito, con cui l’impresa compensa le sole emissioni del 2022, sono quelli che verranno generati nell’arco, ad esempio, di 30 anni mentre nel 2022 realmente quel bosco ha sottratto all’atmosfera solamente poche tonnellate di CO2. Dal punto di vista del clima, quindi, nell’immediato quell’impresa avrà in realtà aumentato la quantità di CO2 presente in atmosfera e questo rimarrà vero per anni o addirittura decenni, finché quel bosco non sarà diventato adulto e quei crediti saranno, diciamo così, effettivamente maturati. Vista l’urgenza di arrestare l’aumento della concentrazione di gas serra in atmosfera e delle temperature, questo ritardo appare incompatibile con la roadmap globale per la neutralità climatica.

Un altro aspetto importante, sempre legato al fattore tempo, è connesso al fatto che quando emetto CO2 in atmosfera, questa vi rimane per diversi decenni. Per effettuare una compensazione credibile, dunque, dovrei in qualche modo garantire che la CO2 sottratta con cui ho generato i crediti non torni in atmosfera prima di 50-100 anni. Dovrei, ad esempio, poter garantire che il bosco appena piantato non venga tagliato o colpito da un incendio per diversi decenni, cosa ovviamente molto difficile da dimostrare.

  • La scala: quanta CO2 può essere realmente assorbita in modo credibile?

La possibilità di compensare in modo credibile quote importanti di emissioni si scontra con i limiti oggettivi alle quantità di CO2 che possono essere effettivamente assorbite ogni anno. Escludendo le pratiche di avoidance che, come abbiamo visto, di fatto non sottraggono CO2 dall’atmosfera, così come gli interventi di cattura tecnologica della CO2, oggi ancora praticamente inesistenti e dal futuro incerto, resterebbero principalmente gli assorbimenti legati a suolo e foreste. Ma a quanto potranno mai arrivare? Partiamo da una amara constatazione: oggi nel mondo suolo e foreste emettono molta più CO2 di quanta ne assorbono, perché si tagliano i boschi più rapidamente di quanto ricrescono e perché l’utilizzo intensivo del suolo riduce la quantità di carbonio che è in grado di trattenere: il bilancio finale è l’emissione netta di circa 4 miliardi di tonnellate ogni anno, a metà strada tra le emissioni dell’Unione europea (3) e quelle degli Usa (5). Ovviamente l’obiettivo è quello di ridurre queste emissioni per arrivare ad invertirle di segno prima della metà del secolo, tornando a far crescere gli stock di carbonio contenuti nei suoli e nelle foreste. Ma fino a che punto?

Diciamo che in nessuno degli scenari adottati dall’IPCC, l’organo tecnico della Convenzione Onu sul cambiamento climatico, si superano i 4-5 miliardi di tonnellate di assorbimenti netti di CO2 all’anno dopo il 2050. In altri termini, a livello globale a quella data potremmo arrivare a compensare solo il 10% delle emissioni attuali, una percentuale peraltro simile a quella indicata dall’Unione europea nella sua Roadmap per la neutralità climatica al 2050. Affermare quindi di poter compensare tramite assorbimenti forestali ad esempio la metà, se non tutte le emissioni di gas serra di un’impresa, e immaginando di poter estendere questo approccio a un numero elevato di esse, suono davvero poco credibile.

Compensazioni sì, compensazioni no: una proposta per un nuovo approccio

Quelli appena descritti sono solo alcuni dei problemi che si nascondono dietro alla pratica dell’offsetting e al tentativo di compensare emissioni che non si possono/vogliono tagliare. Altre questioni, non banali e che non possiamo approfondire qui per motivi di spazio, riguardano ad esempio la mancanza di standard di misurazione condivisi a livello internazionale, i rischi di double counting (ossia di contabilizzare più volte la stessa CO2 assorbita), la mancanza di trasparenza (è spesso molto difficile capire quale progetto ci sia dietro a un credito di carbonio) o, anche, effetti collaterali avversi (hanno fatto scuola progetti di forestazione che, ad esempio, hanno portato alla deportazione di intere comunità indigene).

Ma perché in tanti anni queste criticità non sono state affrontate e risolte? In parte si tratta di problemi oggettivamente di non facile risoluzione, o attorno ai quali non è facile trovare un accordo ampio. Ma in gran parte la motivazione di fondo sembrerebbe essere, come spesso accade, di natura economica. Molte imprese ricorrono all’offsetting tramite crediti di carbonio perché è il modo più economico, oltre che più semplice e veloce, per tagliare (almeno sulla carta) le proprie emissioni e potersi dichiarare ambientalmente virtuose. Sempre stando alla banca dati Ecosystem Marketplace, ad oggi la quotazione media di un credito di carbonio si aggira attorno a 2,5 dollari per tonnellata. Per avere un termine di paragone, il mercato dei permessi di emissione europeo (il sistema ETS) viaggia oggi attorno agli 80-90 euro per tonnellata. Ma, soprattutto, mettere in campo interventi di mitigazione per tagliare a monte le emissioni di gas serra, che dovrebbe essere la priorità di ogni strategia di decarbonizzazione, ha costi molto variabili da diverse decine fino anche ad alcune centinaia di dollari per ogni tonnellata di gas serra abbattuta.

Purtroppo questa convenienza è solo apparente e, soprattutto, è figlia proprio del permanere delle criticità appena menzionate, quelle stesse che hanno portato il Guardian a classificare come fake il 94% dei crediti analizzati. È ovviamente possibile sviluppare buoni progetti, a cominciare proprio da quelli di riforestazione, progetti che sarebbero in grado di risolvere gran parte, se non tutte, delle criticità indicate, ma questo significherebbe alzare notevolmente l’asticella dei costi, che passerebbero da pochi euro a diverse decine se non addirittura centinaia di dollari per tonnellata assorbita. Ovviamente, così facendo molti interventi di riduzione delle emissioni tornerebbero competitivi e il ricorso alle compensazioni si ridurrebbe notevolmente.

Dunque, che fare? Partendo dal presupposto che tutelare un bosco o piantarne uno nuovo è una pratica virtuosa dal punto di vista ambientale e andrebbe supportata per la valenza che ha per la biodiversità, la prevenzione dei rischi, la qualità dell’aria e non per i crediti di carbonio che si suppone che essa generi, un’impresa che nel suo percorso verso la neutralità climatica voglia includere legittimamente anche una quota di offsetting, senza incappare nella trappola del greenwashing, dovrebbe seguire poche semplici regole:

  1. dare sempre priorità agli interventi di riduzione delle emissioni, limitando il contributo delle compensazioni a non più del 10% delle emissioni attuali;
  2. rendicontare in modo trasparente, seguendo l’approccio del dual reporting e fornendo, quindi, sempre i dati sulle proprie emissioni effettive, oltre a quelli delle compensazioni;
  3. utilizzare crediti di carbonio che generano un reale assorbimento di CO2 tenendo conto in modo credibile le criticità oramai note del settore e, quindi, diffidare sempre di chi promette grandi risultati a fronte di pochi euro!

Così facendo si eliminerebbe quello che è il principale danno che la pratica dell’offsetting fa alla lotta alla crisi climatica: la concorrenza sleale che le imprese che ricorrono intensivamente alla compensazione fanno a quelle che, spesso con grande dispendio di denaro ed energie, si impegnano concretamente per ridurre la propria impronta climatica.

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