di Andrea Barbabella
Manca meno di un anno alla ventunesima Conferenza delle Parti, Paris2015, dalla quale dovrà uscire un nuovo accordo globale sul clima. Si tratta di un evento di enorme portata, non solo per la rilevanza di un tema come quello dei cambiamenti climatici.
Compito di Parigi, infatti, non sarà semplicemente quello di definire un nuovo strumento operativo, una sorta di Protocollo di Kyoto riveduto e corretto. A Parigi saranno in discussione i fondamentali di ogni possibile accordo sul clima: dalle responsabilità dei singoli verso i beni comuni alla concezione di giustizia globale. Prima di tutto, Parigi dovrà rispondere alla necessità di superare definitivamente la divisione del mondo in paesi sviluppati e in via di sviluppo – Annesso I e non-Annesso I della Convenzione.
L’idea che, per stabilizzare “le concentrazioni di gas serra in atmosfera a un livello tale da prevenire interferenze di origine antropica pericolose con il sistema climatico”, si debba agire sui paesi sviluppati, i quali farebbero da traino per tutti gli altri, è stata smentita dai fatti. L’Art. 4.2 della Convenzione richiedeva ai paesi dell’Annesso I di “returning individually or jointly to their 1990 levels these anthropogenic emissions of carbon dioxide and other greenhouse gases not controlled by the Montreal Protocol”: l’obiettivo nel 2000 è stato largamente superato (-6,7% e -10,2 tenendo conto dell’uso del suolo e foreste – LULUCF).
Così come è stato abbondantemente superato il target fissato dal Protocollo di Kyoto che prevedeva, sempre per gli Annesso I, una riduzione delle emissioni di gas serra del 5,2% come media del periodo 2008-2012. Poco conta se alcuni paesi presi singolarmente (come gli Usa) non hanno centrato il proprio obiettivo; né se un ruolo decisivo sia stato svolto dalla dissoluzione dell’ex blocco sovietico. Ciò che conta è che dal 1990 al 2010, secondo le ultime stime dell’IPCC, le emissioni globali di gas serra sono cresciute di quasi il 30% arrivando a sfiorare i 50 miliardi di tonnellate di CO2eq (GtCO2eq), con una decisa accelerazione proprio negli ultimi anni: il tasso medio annuo di crescita è passato dall’1,3% del periodo 1970-2000 al 2,2% del 2000-2010. Ma soprattutto che di questa accelerazione siano stati responsabili proprio i paesi in via di sviluppo, come la Cina, che oggi è il primo emettitore al mondo con emissioni pro capite che hanno superato quelle della media dei paesi europei, Italia inclusa. E che di certo non può essere annoverata tra i paesi in via di sviluppo esenti da impegni di riduzione delle emissioni.
Compito di Parigi sarà, dunque, quello di superare la concezione, da molti ricondotta alla dottrina politica globale del Presidente americano Harry Truman, di un mondo diviso in due tra paesi sviluppati e in via di sviluppo, attraverso una re-interpretazione di quel principio delle responsabilità comuni ma differenziate sul quale, nei fatti, si sono incagliate le trattative. Nel susseguirsi degli incontri tra le delegazioni per il clima, qualche passo in avanti è stato fatto introducendo ad esempio il contributo economico (il Green climate found da 100 miliardi di dollari), aprendo all’adattamento, includendo strumenti di loss and damage. Ma non si vede ancora un tentativo coerente di affrontare il tema delle responsabilità. La ventesima Conferenza delle Parti di Lima, sostanzialmente un evento preparatorio per Parigi, avrebbe dovuto fornire qualche indicazione in questo senso. In parte lo ha fatto, ma non nel modo che forse ci saremmo augurati.
Come tradizione per questo tipo di eventi, la COP20 ha definito una roadmap in vista di Parigi, con una serie di scadenze e appuntamenti intermedi. Ma, soprattutto, la Conferenza di Lima ha dato indicazioni precise circa il metodo (e, quindi, il principio) che verrà utilizzato per identificare i target nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra. Con il Lima Call for Climate Action si è optato, infatti, per un approccio “bottom-up”, basato sulla acquisizione degli impegni volontari di riduzione delle emissioni decisi autonomamente da ogni Paese (i c.d. Intended Nationally Determined Contributions), in linea con il modello adottato per il c.d. Kyoto2 per il 2020 costruito a partire dai pledges dei paesi coinvolti. In questo modo si è evitato di “prendere il toro per le corna”, evitando la discussione attorno al principio delle responsabilità. Tuttavia, se pure questo stratagemma avrà successo, difficilmente consentirà di rispettare l’obiettivo ultimo della Convenzione.
Per rispettare l’obiettivo ultimo della Convenzione, quello cioè di stabilizzare “le concentrazioni di gas serra in atmosfera a un livello tale da prevenire interferenze di origine antropica pericolose con il sistema climatico”, bisognerà limitare l’innalzamento della temperatura media terrestre a non più di 2°C rispetto al periodo pre-industriale (siamo oggi a poco meno di +1°C). Per far questo, secondo i dati presentati nell’ultimo rapporto dell’IPCC, le attività antropiche non potranno immettere in atmosfera più di 900-1.000 GtCO2eq. È questo il carbon budget che abbiamo a disposizione almeno per questo secolo e che al ritmo attuale verrebbe bruciato in meno di vent’anni. Per capire, quindi, se un determinato impegno di riduzione delle emissioni è compatibile con l’obiettivo finale della Convenzione, è necessario spalmare questo budget da qui a fine secolo secondo. I percorsi possibili sono, sulla carta, innumerevoli ma, escludendo gli scenari più estremi (ad esempio quelli legati a balzi tecnologici difficili da prevedere), è possibile individuare delle caratteristiche comuni: il picco delle emissioni globali, ossia il massimo livello mai raggiunto, dovrà verificarsi prima del 2030 e, più verosimilmente, vicino al 2020; al 2030 le emissioni globali dovranno essere, dunque, già in calo e comparabili o inferiori a quelle del 2010; al 2050 le emissioni globali non dovranno superare la metà di quelle del 2010; entro il 2100 dovrà essere raggiunta la neutralità emissiva.
Nel novembre 2014, in vista della Conferenza di Lima, l’UNEP ha licenziato l’Emission gap report con il quale ogni anno fa il punto in materia di emissioni di gas serra e impegni di riduzione presentati dai singoli paesi. Attualmente hanno presentato impegni di riduzione per il 2020 42 paesi dell’Annesso I e 16 paesi in via di sviluppo (acquisisti tramite la sottoscrizione dei National appropriate mitigation actions NAMAs): insieme questi 58 paesi rappresentano nel 2010 il 75% delle emissioni mondiali. Secondo l’Organizzazione dell’ONU, l’insieme di questi impegni non è sufficiente a garantire il rispetto dell’obiettivo dei 2°C e i tagli ulteriori che sarebbero necessari sono decisamente importanti: 8-10 GtCO2eq. al 2020 e 14-17 GtCO2eq al 2030. Nell’analisi dell’UNEP non è stato incluso il recente accordo Usa-Cina, del quale bisognerà verificare la tenuta in particolare della prima parte con un Presidente senza l’appoggio del Congresso, ma in ogni caso non modificherà in modo sostanziale la situazione (al 2020 l’impegno degli Usa era di ridurre le emissioni del 17% rispetto al 2005, quello della Cina di tagliare del 40-45% la propria intensità carbonica, rispetto allo stesso anno). L’analisi dei dati contenuti nel report porta a una facile constatazione: non soggetti a nessun vincolo particolare, tramite gli impegni volontari i singoli governi hanno individuato target in linea che l’attuale traiettoria di decarbonizzazione.
Sappiamo già oggi che l’insieme dei contributi volontari, seppure sarà stato utile a non far saltare l’accordo, non sarà stato in grado di rispondere all’obiettivo ultimo della Convenzione. A meno di prevedere un qualche meccanismo correttivo che magari partendo dai contributi su base volontaria arrivi a forzarli definendo nuovi target coerenti con la soglia dei 2°C. Purtroppo il documento licenziato a Lima non contempla tale meccanismo e, inoltre, la roadmap fissata sembra non lasciare molte possibilità in questo senso, a cominciare dal calendario. I Paesi sono invitati a trasmettere ufficialmente i propri impegni a partire da marzo, “per quelli che sono pronti a farlo”, con una scadenza ultima fissata al 1° di ottobre; una volta acquisiti tutti i contributi volontari nazionali, la Segreteria della convenzione predisporrà un report sugli effetti cumulati attesi entro il 1° di novembre, ossia a un mese dall’apertura della Conferenza di Parigi.
Difficile, quindi, immaginare di affrontare una questione simile allora.
Nonostante ciò, la strada che porta a Parigi è ancora lunga e molte cose potrebbero ancora accadere.
I fronti su cui potrebbero intervenire novità di rilievo sono almeno due. Il primo è relativo a una rivalutazione del ruolo della green economy come processo reale e attualmente in corso non adeguatamente considerato nella definizione dei contributi volontari. Per citare alcuni dati, nel 2012 gli investimenti pubblici e privati nelle rinnovabili hanno raggiunto i 244 miliardi di dollari e quelli in efficienza energetica i 310-360 miliardi. Questo grazie a una serie di politiche attive che la gran parte dei governi sta già mettendo in campo, indipendentemente da target vincolanti imposti dall’esterno, a allo sviluppo delle tecnologie che rende sempre più competitive sul mercato le opzioni low-carbon. Inoltre gli aspetti legati alla sicurezza degli approvvigionamenti e ai costi delle materie prime sono sempre più centrali nelle strategie di singoli paesi o regioni. In linea generale, la concezione lineare della storia che sta alla base del mondo diviso in due, che immagina un percorso predefinito per lo sviluppo economico di ogni paese che passa attraverso una fase di forte crescita ad alta intensità di emissioni, potrebbe essere messa in discussione proprio grazie alle possibilità offerte dalla green economy.
Da qui si aprirebbe il secondo possibile fronte di intervento.
Una volta che fossero realmente acquisiti i potenziali della green economy, sarebbe anche possibile trovare una chiave per re-interpretare il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, immaginando per i paesi più poveri un inedito percorso di sviluppo economico basato su alti standard di innovazione, basse emissioni ed elevata inclusione sociale, mentre per quelli più ricchi si profilerebbe un processo di rapida conversione dei propri modelli di produzione e consumo non più minacciato da una competizione giocata sul dumping ambientale e sociale. A questo punto potrebbe rientrare in gioco anche un approccio per la definizione dei target di tipo misto o strettamente “top-down”, basato cioè su un target complessivo da cui, attraverso un processo di ripartizione dei carichi (il c.d. burden sharing), si definiscono sulla base di criteri oggettivi e condivisi gli impegni dei singoli paesi. Tra questi, come già discusso in occasione della sessione tematica degli Stati Generali della Green Economy dello scorso novembre, andrebbe recuperato quello di una progressiva convergenza delle emissioni in pro-capite, magari con un orizzonte differenziato tra paesi Annesso I e gli altri e con la possibilità per questi ultimi di proseguire in una fase temporanea di crescita in modo da tener conto, almeno parzialmente, della c.d. responsabilità storica. In questo senso, in realtà, il documento di Lima non chiude del tutto le porte: al punto 5 dell’allegato che illustra una serie di opzioni relative agli elementi chiave che potrebbero entrare a far parte dell’accordo di Parigi, si legge infatti di un “budget globale di emissioni da dividere tra tutte le Parti, in accordo con i principi e le disposizione della Convenzione” e con “le responsabilità storiche, l’impronta ecologica, le capacità e il livello di sviluppo”.
Insomma, di strade che da Lima portano a Parigi, ce ne sono diverse, ma solo quelle che passeranno per una green economy potranno avere qualche chance di condurre a un accordo per il clima davvero efficace.
RIFERIMENTI:
Lima call for climate action | pdf |
APPROFONDIMENTI
IPCC – 5AR (sito web: www.ipcc.ch)
UNEP: Emission gap report | link |
Convenzione quadro UNFCC |link |
Sito web Comitato scientifico sulle trattative internazionali sul clima



