di Andrea Barbabella da HuffPost
Sappiamo tutti di vivere in un mondo terribilmente ingiusto e diseguale. Secondo l’ultima edizione del World Inequality Report, l’1% della popolazione mondiale, 80 milioni di individui, detiene quasi il 40% della ricchezza globale, mentre il 50% più povero, cioè 4 miliardi di persone, possiede appena il 2% della ricchezza globale. Questa incredibile disparità produce una tensione costante nella società, che spesso sfocia in veri e propri conflitti, tra Stati o all’interno degli Stati stessi. Ma quello che forse in pochi sanno è che esiste un duplice legame tra questa situazione di estrema diseguaglianza e la crisi ambientale, e quella climatica in particolare.
Un primo tipo di legame riguarda il tema della responsabilità. La parte di mondo più ricca è anche quella che storicamente ha sfruttato in maniera intensiva le risorse ambientali e contaminato, direttamente o indirettamente, gli ecosistemi globali. Non solo oggi quegli 80 milioni di individui incredibilmente ricchi da soli emettono più gas serra dei 4 miliardi di persone più povere del pianeta, ma se guardiamo alle emissioni cumulate prodotte dal 1850 a oggi, secondo l’analisi del Programma ambientale delle Nazioni Unite, l’80% di queste emissioni sono state prodotte dalle prime 20 potenze economiche globali. Se prendiamo solo gli Stati uniti e i Paesi dell’Unione europea, che oggi rappresentano il 10% della popolazione mondiale, da soli sono responsabili di un terzo di tutte le emissioni generate a partire dalla rivoluzione industriale.
Proprio l’incapacità di dare una risposta a questo fatto storico ha tenuto in stallo per anni, anzi per decenni, le trattative internazionali sul clima. All’atto pratico, quel principio di “responsabilità comune ma differenziata” sancito nel lontano 1992 dalla prima Conferenza mondiale sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro e sottoscritto da quasi tutti i Governi del mondo, non ha trovato una traduzione operativa né una strategia efficace e condivisa per il contrasto alla crisi climatica. Tant’è che dopo oltre trent’anni stiamo ancora qui, a cercare di cogliere i primi indizi di una riduzione delle emissioni globali di gas serra.
In realtà nel 2015 a Parigi si è imboccata una strada nuova, cercando in qualche modo di aggirare il problema attraverso la rinuncia a una ripartizione degli impegni di riduzione delle emissioni tra i diversi Stati rigida e imposta dall’alto, come era avvenuto a suo tempo con il Protocollo di Kyoto, attraverso la definizione di impegni stabiliti in modo volontario e indipendente dai singoli Governi (i Nationally Determined Contribution – NDC). Purtroppo, oggi sappiamo con certezza quello che a Parigi temevamo solamente, ossia che questi impegni presi su base volontaria risultano del tutto insufficienti a contrastare la crisi climatica, come certificato dal primo Global Stocktake – ossia la valutazione degli effetti attesi dai circa 200 NDC presentati – realizzato nella COP28 di Dubai da poco conclusa. Insomma, la questione della responsabilità, a cominciare da quella dei Paesi grandi emettitori, che sembrava superata è di nuovo qui, ingombrante come non mai.
Ma c’è anche un altro tipo di legame tra diseguaglianze e crisi climatica. Il fatto che gli impatti negativi di quest’ultima colpiscono in modo decisamente più marcato i più poveri, ossia quelli che hanno contribuito in modo molto limitato alla crisi climatica e al tempo stesso hanno meno strumenti per difendersi degli effetti del riscaldamento globale. Un recente studio, sempre promosso dalle Nazioni Unite, per la prima volta ha provato a quantificare questo paradosso, e i risultati sono probabilmente peggiori di quanto ci si potesse aspettare: la metà più povera della popolazione globale, responsabile di appena il 12% delle emissioni globali di gas serra, pagherà il 75% dei costi indotti dalla crisi climatica mentre il 10% più ricco, che produce circa la metà delle emissioni mondiali di gas serra, subirà appena il 3% delle perdite economiche indotte dal riscaldamento globale.
La crisi climatica, dunque, non solo è figlia del privilegio di pochi eletti, ma è anche un potente acceleratore delle diseguaglianze nel mondo. Questo tema ha trovato alla COP28 di Dubai una parziale risposta, con l’istituzione del fondo Loss&Damage che dovrebbe consentire di trasferire ogni anno 100 miliardi di dollari dai Paesi industrializzati a quelli più poveri proprio per fronteggiare le perdite economiche connesse al cambiamento climatico. Purtroppo, non possiamo essere certi di quando quei soldi arriveranno davvero e, soprattutto, sappiamo già ora che il fabbisogno reale è di almeno 4-5 volte maggiore.
Questa narrativa, legata per lo più alle trattative e agli accordi internazionali, rischia tuttavia di farci cadere nell’errore che la cosa ci riguardi fino a un certo punto e che sia essenzialmente un fatto da regolare nelle relazioni tra gli Stati. Il documento delle Nazioni Unite ci dice invece proprio il contrario. Perché i livelli di diseguaglianza che abbiamo visto tra i diversi Stati possono diventare ancora maggiori all’interno dei singoli Paesi.
Come ci ha insegnato il grande filosofo polacco Zygmut Bauman con la sua visione di una società liquida, viviamo sempre più in un mondo diviso, in cui una piccola minoranza di privilegiati, tra cui purtroppo decisori politici, vive sempre più isolata dal resto della popolazione una vita confortevole, spostandosi ogni giorno da abitazioni protette e confortevoli a circoli esclusivi, luoghi di lavoro o di studio sempre estremamente protetti e confortevoli. Ignorando così completamente le fatiche di una moltitudine che vive ogni giorno che passa in un ambiente sempre più faticoso e ostile. E che non può far altro che arrangiarsi, come quegli anziani a cui per sfuggire alle ondate di calore estivo qualcuno suggeriva di chiudersi in un centro commerciale per trovare un po’ di ristoro. Siamo certi che tutto questo davvero non riguardi anche noi?